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Orfeo ed Euridice in versi

  • Redazione
  • 7 giu
  • Tempo di lettura: 5 min

di Vittoria Albano

3A Liceo classico - filologico


 Il mito di Orfeo ed Euridice è una storia senza tempo, tramandata dal VI secolo a.C. ai giorni nostri. Il cantore Orfeo, morta Euridice, la futura sposa, si abbandona ad un canto talmente disperato da spingere gli dei a concedergli di far tornare in vita l’amata. Pongono però una condizione: lungo la via di ritorno dall’Ade, egli non deve voltarsi a guardarla. Purtroppo la conclusione è tragica: infatti Orfeo, cercando Euridice con lo sguardo, condanna lei ad una seconda morte, e sé stesso all’eterna solitudine. 

 Dunque, com’è naturale domandarsi, qual è il motivo di questo gesto apparentemente insensato? A tale quesito hanno cercato di fornire una valida risposta nel corso dei secoli molti letterati, e qui parleremo di un classico latino, Virgilio, e di una autrice contemporanea, la poetessa Alida Airaghi. 


Ormai tornando sui suoi passi aveva superato tutti i rischi,                                                                                    485

e ridata a lui Euridice andava verso l'aria che spira in alto,

seguendolo alle spalle (questa la condizione voluta da Proserpina) -

quando un'improvvisa follia colse l'innamorato imprudente

(cosa da perdonarsi, se i Mani sapessero perdonare):

si arrestò e ormai presso la luce, dimentico - ahimè -                                                                                               490

e vinto nell'animo dalla passione, gettò uno sguardo indietro alla sua Euridice.

Lì tutta la sua fatica andò distrutta e furono infranti i patti fissati dal signore spietato,

e per tre volte si udì un fragore sopra gli stagni d'Averno.

E lei: «Cosa ha perduto me stessa, infelice, e te, Orfeo,

quale pazzia così grande? Ecco, una seconda volta il destino crudele                                                              495

mi richiama indietro e il sonno chiude i miei occhi smarriti.

E ora addio: sono trascinata avvolta da una notte immensa

e tendo verso di te - ahi, non più tua - le mani senza forza».

Disse e in un attimo, come fumo si dissolve

in soffi lievi di vento, fuggì dall'altra parte e non lo vide più                                                                                  500

mentre lui inutilmente cercava di afferrare l'ombra

e molte cose ancora voleva dirle; ma il trasportatore dell'Orco

non lasciò più che superasse l'ostacolo della palude.


(Virgilio, Georgiche, IV, vv. 485-503, trad. it. di A. Barchiesi, Mondadori, Milano 1980)


Quella di Virgilio è una delle versioni più celebri del mito, contenuta all’interno del quarto libro delle “Georgiche”, dedicato all’apicoltura. La vicenda di Orfeo viene paragonata a quella del pastore Aristeo che, pur avendo spinto Euridice verso la morte, ripara al suo errore eseguendo il volere degli dei con un sacrificio espiatorio. Al contrario, il cantore osa sfidare le divinità tentando di sconfiggere la morte. Secondo Virgilio quella di Orfeo è “un’improvvisa follia” (v.488) dettata dalla “passione” (v.491): egli è talmente desideroso di riavere la promessa sposa, anche solo di ammirarla, da dimenticare completamente il patto divino. Nei versi seguenti viene data la parola ad Euridice stessa, che sottolinea l’insensatezza di quel gesto (“quale pazzia così grande?”, v.495). Infine, il brano si conclude con l’immagine drammatica di Orfeo che tenta invano di afferrare l’ombra di lei e “molte cose ancora voleva dirle” (v.502). L’interpretazione di Virgilio, dunque, è quella di una follia causata da un amore incontenibile, impaziente.


X

 

Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina. 

Ma non ti guardo, taccio, sono bravo. 

Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo, 

Euridice, mia madre e bambina.             4 

Come vorrei mi prendessi la mano, 

toccarti un braccio, sfiorarti la bocca: 

so che non devo, so cosa mi tocca 

se non resisto a starti lontano.               8 

Sei silenziosa e ferma al mio fianco, 

oppure ti nascondi, resti indietro; 

segui ubbidiente il mio passo stanco  11 

e nel tuo passo leggero ti ascolto. 

Tu, trasparente pensiero di vetro: 

voglio appannarti. Ecco, mi volto.       14

 

(A. Airaghi, Euridice, in Nuovi poeti italiani. 6, Einaudi, Torino 2012) 


 Nel suo poemetto “Euridice” (2012), Alida Airaghi dipinge uno scenario alquanto differente rispetto alla versione virgiliana. Nel nono sonetto, il protagonista riferisce le sue sensazioni rivolgendosi all’amata, che lo segue nella risalita dagli Inferi. Nonostante non possa vederla, e neppure toccarla né sentirla, egli considera la sua presenza un fatto certo (“Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina”, v.1). Orfeo, seppur bramoso di rivedere la sua Euridice, è consapevole di dover rispettare i limiti imposti dagli dei (“non ti guardo…sono bravo”, v.2; “so cosa mi tocca / se non resisto a starti lontano”, v.8). Ma, soprattutto, sembra volersi dimostrare ubbidiente a lei, come evidenziano le parole: “ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo, / Euridice, mia madre e bambina” (v.3-4). Qui, i termini posti in antitesi, oltre a costituire un paradosso, esprimono tutto ciò che il protagonista promette all’amata: forza e adorazione, cura reciproca. Allo stesso tempo, queste riflessioni sono incorniciate da sensazioni visive (“i tuoi occhi”, v.3), tattili (“toccarti un braccio, sfiorarti la bocca”, v.6), uditive (“passo leggero”, v.12). Tuttavia, non si tratta di una vera e propria sinestesia, dal momento che sono quasi tutte percezioni immaginarie, fantasie. In seguito, il dubbio inizia a insinuarsi nella mente del protagonista proprio a causa dell’assenza di questi segnali (“oppure ti nascondi”, v.10). Sarà la ricerca di conferme, dunque, a spingerlo a voltarsi repentinamente negli ultimi due versi, nonostante le precedenti meditazioni. 

   Tale esigenza è espressa perfettamente dalla Airaghi mediante una metafora così suggestiva da rimanere facilmente impressa nella mente dei lettori: “Tu, trasparente pensiero di vetro: / voglio appannarti. Ecco, mi volto”. Richiamando il primo verso (“Ecco, ti sento”), la poesia si conclude descrivendo un uomo che non è accecato dall’amore, “cosa da perdonarsi, se i Mani sapessero perdonare” (Georgiche, IV, v.489), come canta Virgilio, ma da un sospetto irragionevole. Nel suo poemetto “Euridice” (2012), Alida Airaghi dipinge uno scenario alquanto differente rispetto alla versione virgiliana. Nel nono sonetto, il protagonista riferisce le sue sensazioni rivolgendosi all’amata, che lo segue nella risalita dagli Inferi. 

Nonostante non possa vederla, e neppure toccarla né sentirla, egli considera la sua presenza un fatto certo (“Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina”, v.1). Orfeo, seppur bramoso di rivedere la sua Euridice, è consapevole di dover rispettare i limiti imposti dagli dei (“non ti guardo…sono bravo”, v.2; “so cosa mi tocca / se non resisto a starti lontano”, v.8). Ma, soprattutto, sembra volersi dimostrare ubbidiente a lei, come evidenziano le parole: “ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo, / Euridice, mia madre e bambina” (v.3-4). Qui, i termini posti in antitesi, oltre a costituire un paradosso, esprimono tutto ciò che il protagonista promette all’amata: forza e adorazione, cura reciproca. Allo stesso tempo, queste riflessioni sono incorniciate da sensazioni visive (“i tuoi occhi”, v.3), tattili (“toccarti un braccio, sfiorarti la bocca”, v.6), uditive (“passo leggero”, v.12). Tuttavia, non si tratta di una vera e propria sinestesia, dal momento che sono quasi tutte percezioni immaginarie, fantasie. In seguito, il dubbio inizia a insinuarsi nella mente del protagonista proprio a causa dell’assenza di questi segnali (“oppure ti nascondi”, v.10). Sarà la ricerca di conferme, dunque, a spingerlo a voltarsi repentinamente negli ultimi due versi, nonostante le precedenti meditazioni. 

 Tale esigenza è espressa perfettamente dalla Airaghi mediante una metafora così suggestiva da rimanere facilmente impressa nella mente dei lettori: “Tu, trasparente pensiero di vetro: / voglio appannarti. Ecco, mi volto”. Richiamando il primo verso (“Ecco, ti sento”), la poesia si conclude descrivendo un uomo che non è accecato dall’amore, “cosa da perdonarsi, se i Mani sapessero perdonare” (Georgiche, IV, v.489), come canta Virgilio, ma da un sospetto irragionevole. 



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