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AC Scuola Montessori APS

La donna tra la satira di Semonide e l'ode di Saba

di Andrea Fundarò

ex studente del Liceo Classico


Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell'andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull'erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Così se l'occhio, se il giudizio mio

non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun'altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.


Tu sei come una gravida

giovenca;

libera ancora e senza

gravezza, anzi festosa;

che, se la lisci, il collo

volge, ove tinge un rosa

tenero la tua carne.

Se l'incontri e muggire

l'odi, tanto è quel suono

lamentoso, che l'erba

strappi, per farle un dono.

È così che il mio dono

t'offro quando sei triste.


Tu sei come una lunga

cagna, che sempre tanta

dolcezza ha negli occhi,

e ferocia nel cuore.

Ai tuoi piedi un santa

sembra, che d'un fervore

indomabile arda,

e così ti riguarda

come il suo Dio e Signore.

Quando in casa o per via

segue, a chi solo tenti

avvicinarsi, i denti

candidissimi scopre.

Ed il suo amore soffre

di gelosia.


Tu sei come la pavida

coniglia. Entro l'angusta

gabbia ritta al vederti

s'alza,

e verso te gli orecchi

alti protende e fermi;

che la crusca e i radicchi

tu le porti, di cui

priva in sé si rannicchia,

cerca gli angoli bui.

Chi potrebbe quel cibo

ritoglierle? chi il pelo

che si strappa di dosso,

per aggiungerlo al nido

dove poi partorire?

Chi mai farti soffrire?


Tu sei come la rondine

che torna in primavera.

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest'arte.

Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere;

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un'altra primavera.


Tu sei come la provvida

formica. Di lei, quando

escono alla campagna,

parla al bimbo la nonna

che l'accompagna.

E così nella pecchia

ti ritrovo, ed in tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio;

e in nessun'altra donna.


Umberto Saba, A mia moglie



La donna concepisce nel grembo suo, soffrendo il fardello del futuro, il mistero della vita, onde scaturisce l’uomo; e, messi al mondo figliuoli, sua massima cura e ufficio ripone in nutrirli e allevarli, ed essi ne poppano il latte per crescere sani e forti. La donna è la terra, Gaia, che irrugiadata della pioggia di Urano partorisce dalla matrice i suoi figliuoli, e dispensando loro biade e frumenti, frutto della sua messe, li pasce e alimenta. Ella è un simbolo sacro, l’eterno femminino che compie l’imperfetto, e ragiona di cose ineffabili, e ingentilisce l’uomo, e lo innalza all’eterna sapienza, all’eterna immortalità dello spirito.


Ella è il ponte tra il cielo e la terra, il ministro di Dio: i suoi occhi sono lo specchio di Cristo, nei quali l’uomo fissa lo sguardo per contemplare quel sole che irraggia ora questa ora quella parte (Beatrice tutta nell’etterne rote / fissa con li occhi stava; ed io in lei / le luci fissi, di là su remote, Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, I, 64-66).


Pure, la donna nella tradizione occidentale, sin dall’antichità, è considerata la più grande sciagura: ecco Pandora, fabbricata da Efesto per comandamento di Zeus, acciocché castigasse Prometeo del furto del fuoco da lui commesso, porge allo stolto Epimeteo il vaso che contiene tutti i mali dell’universo, e lo scoperchia, scatenando pestilenze, fami e ogni sorta di mortalità. Sola la Speranza rimane sul fondo dell’orcio, la vana Speranza che inganna e irretisce gli uomini.


Ecco Eva, autrice del peccato originale, sedotta dal serpente, seduce a sua volta Adamo, e mangia del frutto dell’albero della scienza del bene e del male, non osservando i precetti del Signore, che aveva vietato loro di accostarsi e di toccare quell’albero. La cultura greca s’intreccia a quella giudaica, plasmando della donna l’immagine della rovina: una femmina fatale che con le sue arti adesca l’uomo, e lo conduce irreparabilmente alla morte.


Questa concezione misogina della donna, instillata dalla matrice indoeuropea e semitica, nel corso dei secoli ha prodotto una letteratura, la quale la biasima e schernisce, non senza però strenue resistenze: basti qui accennare al Libro della città delle dame di Cristina da Pizzano (1364 – 1430 ca.), il cui titolo già morde gli uomini, e le loro fatiche, e perfino il solenne lavoro di Agostino d’Ippona, il De civitate Dei, quasi a rivendicare un ruolo non solo nel versificare e nel comporre poesie d’amore, ma ancora nel partorire opere di filosofia e teologia, appannaggio esclusivamente maschile.


Tra i giambografi greci del VII secolo a.C., assieme ad Archiloco, si staglia Semonide di Amorgo, noto sopra ogni altro componimento per la cosiddetta Satira sopra le donne (frammento 7), un vero e proprio catalogo zoologico della donna, dove ogni sua sorta è ragguagliata a un animale. Volgarizzata da Giacomo Leopardi, e pubblicata a Bologna con gli idilli e altre poesie sotto il titolo di Versi del conte Giacomo Leopardi (Stamperia delle Muse, Tipografia Brighenti, Bologna 1826), la satira di Semonide riscosse un grande successo, e la versione leopardiana, scrollandole di dosso le tenebre dell’obblio, la lustrò in cospetto del popolo. L’opera di Semonide, presumibilmente sotto questa versione, fu letta da Umberto Saba, e lo ispirò a comporre un’ode A mia moglie un pomeriggio d’estate, dimorando egli in cima a Montebello, vicino a Trieste.


Ma procediamo con ordine.


Dalla Satira sopra le donne di Semonide si evincono ben nove assimilazioni ad animali, ovvero alla terra e al mare: la prima in su la tempera del ciacco, cioè a dire da scrofa. Ella ruzzola per casa tra la polvere, mai si lava, e si rivoltola nel sucidume, come usano i porci nel fango. L’altra donna Iddio la fabbricò in guisa d’empia volpe, la quale è dotta in ogni sapere e tenta, malandrina qual è, di abbindolare l’uomo con le parole; quindi segue la cagna, affamata, avida, che digrigna i denti e non cessa di latrare, neppure se il padrone la batte; la terra dipinge una donna neghittosa e inetta, la quale non sa altro che masticare e coricarsi e, quando d’inverno cala la notte e piove, ella tira la seggiola al focolare; il mare una donna bifronte e mobile: ora è bonaccia che ricrea e ristora i marinai, ora tempesta che li fa naufragare, e l’una e l’altra faccia si mescolano tra i suoi capricci; l’asino una donna che, recalcitrante, nientedimeno accetta tutto e lavora tra il sudore e il pianto, e si concede a ogni viandante; la gatta una donna svogliata, insipida, che fa vomitare il marito, e rapina di nascosto il vicino, e s’ingozza delle profferte che mendica; la cavalla una donna che schifa le opere servili e abbomina la fatica, non s’ardisce di assistere al forno per timore della fuliggine, e quattro e sei volte al giorno si profuma e pettina vezzosamente; la scimmia la peggior peste che ci sia: bruttissima, senza forma, il capo confitto sulle spalle, mena il suo tempo ordendo qualche infinito danno. E ultimamente l’ape, il solo animale del catalogo con un’accezione positiva, la quale disegna una donna fedele e garbata, che invecchia col marito, e sopra tutte le altre risplende: l’ape è simbolo della laboriosità e della castità – credevasi che ella si riproducesse per via asessuata, in una generazione spontanea chiamata bugonia (cfr. Verg., Georg., IV) – nonché della fertilità e della femminilità, come nel simulacro d’Artemide Efesia del II secolo d.C.


Ora, Umberto Saba (1883 – 1957) nell’ode A mia moglie, composta un pomeriggio d’estate tra il 1909 e il 1910, e ascritta poi ai canti della Casa e della campagna del Canzoniere, rovescia la zoologia di Semonide, facendo dell’animale l’unico termine di paragone che sia sulla terra, vuotandolo della sua morale favolosa, che già da Esopo costituiva una semiotica universale del mondo animale, e restituendolo al libro aperto della creazione di Dio. La donna, come l’animale, è l’araldo del Signore, che mette in comunicazione l’uomo con lui: un’esegesi mezzana tra il Genesi e il Cantico delle creature, e i sonetti e le canzoni degli Stilnovisti. Sette sono gli animali che compaiono di volta in volta nella poesia, i sereni animali che avvicinano a Dio: ora la donna è una bianca pollastra, a cui si arruffano le piume al vento, che china il collo per bere, e in terra raspa, ma incede sull’erba come una regina, e intona la soave e triste musica dei pollai; ora è una gravida giovenca, festosa, leggera – il feto non le pesa ancora sul grembo – la quale rivolge il collo laddove l’uomo la liscia, ed emana muggiti talmente lugubri, che l’erba strappi per farle un dono; ora è una lunga cagna che serba dolcezza negli occhi e ferocia nel cuore, e si strugge di gelosia e digrigna i denti a chi minacci il suo amore; ora è una pavida coniglia che aspetta che il suo padrone la pasca di crusca e di radicchi, senza i quali si rannicchia in un angolo buio; ora è una rondine che annunzia la primavera, e danza leggiadra agli zefiri, e ringiovanisce il vecchio marito; ora è una provvida formica, industriosa e saggia, e ora un’ape. In somma, Saba ha compiuto una curiosa operazione, ribaltando la misoginia dominante nel giambo di Semonide, e trovando nell’animale motivo non di biasimo ma di lode della donna, e in particolare della graziosa moglie, Carolina Woelfler, sposata quello stesso anno. Così, mentre la cagna di Semonide rappresenta l’avarizia e la cupidigia, perché ella latra tutto il giorno, domandando insistentemente al padrone di che mangiare, la cagna di Saba è simbolo di una dolceamara gelosia, nonché di fedeltà: questa guarda il suo signore mansueta, e veglia su di lui col cuore colmo di ferocia. Nelle parole di Saba aleggia un amore ingenuo, una meraviglia puerile, quasi che egli contemplasse la moglie con gli occhi di un fanciullo. Questa innocenza però camuffa l’attenta analisi dell’adulto, che veste consapevolmente la maschera del fanciullino pascoliano, dietro la quale per amore si nasconde.


Da questa complessa trama di simboli, in Semonide morali e in Saba soltanto metaforici, questi consegna alla posterità, e restituisce alla donna la sua dignità umana e massimamente divina, quale creatura che partecipa dei due mondi, attraverso una selva di immagini umili, mondane, immanenti. Non è la bellezza, il fascino ammaliante, la formosità della donna a catturare Saba, bensì la sua facoltà spirituale di nobilitare l’uomo, avvicinandolo a Dio, trasferendosi di volta in volta nei panni degli animali della creazione, quegli animali cotanto diletti a San Francesco, perché in grado di congiungere l’uomo a Dio col filo dell’amore, e di commendare e lodare le opere del Signore.

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