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Nuove prospettive, antiche tradizioni

di Filippo Rubbo - Educatore Teatrico e attore del Gruppo Eleusis



Ho sempre ritenuto pretenzioso fare delle riflessioni sulle “prospettive del teatro” e ancor di più parlare a nome del Teatro. Anche quando a farlo sono persone di indubbio valore o con una storia importante alle spalle, sono sempre scettico rispetto a questo approccio, perché rischia con grande facilità di scadere nella generalizzazione.


Il teatro non esiste. Non è mai esistito nella storia un corpus unico che potesse prendere il nome di “Teatro”. Esistono e ci sono sempre stati “i Teatri”. Un’innumerevole congerie di esperienze e sentieri artistici che hanno attraversato la Storia, accompagnando gli uomini, contribuendo a formare la cultura, osservare e proporre un punto di vista critico sulla realtà, sugli usi e i costumi della civiltà del tempo.


Diciamocelo con chiarezza, difficilmente il rapporto tra le forme d’arte teatrali e il cosiddetto “potere” è stato semplice o pacifico. Per loro natura i teatri, o la gran parte di essi, rappresentavano quella chiave anarchica incapace di avere una relazione serena con il potere temporale, sia esso religioso, politico, militare. Gli attori che noi oggi consideriamo divi, idoli e persino, in alcuni casi, intellettuali di alto profilo, erano fino a poco tempo fa ciarlatani senza alcun peso nella società. Bene che andasse, davano fastidio al politico, al cardinale o al generale di turno.


Quando non erano osteggiati apertamente dal potere, condannati ad una sepoltura in terra sconsacrata, i teatranti rischiavano di morire di fame per prolungati periodi di carestia, pandemia, guerra. L’idea che lo Stato si facesse carico del benessere dei teatranti, li tutelasse o li riconoscesse come elemento culturale imprescindibile, semplicemente non esisteva. Eppure i teatri vivono ancora. I teatri hanno continuato con resilienza e senza eroismi ad andare avanti. La civiltà teatrale del XX secolo ha creato una frattura enorme nel panorama teatrale europeo e non solo: l’esperienza dei gruppi, lo sviluppo e la riscoperta di un teatro che potesse vivere anche al di fuori delle sale e dei luoghi normalmente adibiti alla rappresentazione.


Scrivo questa premessa perchè nell’ultimo anno e mezzo la nostra civiltà si è trovata a fronteggiare una sfida di proporzioni gigantesche. Onestamente, chi se la poteva immaginare una pandemia? Chi poteva immaginare che saremmo stati chiusi in casa per mesi? Che ciò che davamo per scontato come l’aggregazione, l’incontro tra persone, le relazioni sociali, sarebbero state messe in discussione in modo così forte e drammatico?

Quando accadono eventi di questa portata si lasciano dietro sofferenze immense, ferite individuali e collettive enormi. Abbiamo avuto, solo in Italia, una media di più di 400 decessi al giorno per mesi. 124.000 morti dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Ad oggi, mentre sto scrivendo, viaggiamo ad una media di un centinaio di morti al giorno e ci sembra un dato positivo “perché la curva dei contagi e tutti gli indicatori sono in continuo miglioramento”. Da un punto di vista economico, nel settore artistico e culturale in tanti, tantissimi, hanno perso il lavoro e si sono ritrovati sul lastrico. Non solo attori, ma tutte quelle persone che contribuiscono a far vivere gli spazi culturali e teatrali. Moltissimi operatori, tecnici, macchinisti, scenografi, costumisti e tanti altri ancora, si ritrovano in grave difficoltà. Tengo in modo particolare a quest’ultimo aspetto. I lavoratori dello spettacolo non sono semplicemente gli attori. Io faccio parte di un gruppo – non di una compagnia, ma spiegare la differenza sarebbe una digressione eccessiva – che al suo interno ha molte figure professionali diverse. Una nostra caratteristica è sempre stata quella di riconoscere la dignità e la centralità di ogni mestiere, uscendo dalla visione attore – centrica che spesso rischia di entrare a far parte del nostro immaginario collettivo se si pensa al teatro.


Nonostante sia compito di una società in movimento proporre politiche attive più attente al mondo della cultura, nonostante quello che è stato messo in campo fino ad ora risulti insufficiente e l’attenzione nei confronti dei lavoratori dello spettacolo non sia stata altissima, per usare un eufemismo, dobbiamo anche riconoscere, per onestà intellettuale, che viviamo nel periodo storico che ha offerto maggiori tutele da molti punti di vista, se confrontato con gli ultimi due millenni e mezzo.


Non voglio essere frainteso. Questo non significa non auspicare politiche culturali più attente e lungimiranti o non rivendicare i diritti dei lavoratori che, come in ogni altro settore, meritano considerazione e tutele. Quella che vorrei confutare è la retorica che afferma che “al giorno d’oggi non c’è più la giusta considerazione per la cultura/scuola/sanità” etc. Anche in passato, con le dovute differenze a seconda dei periodi e dei governanti illuminati di turno, non c’era attenzione.


Arrivando ad oggi, i cambiamenti che possiamo osservare sono di portata epocale. Un anno e mezzo di chiusura delle attività culturali e artistiche hanno modificato le abitudini di fruizione dei prodotti. Se prima il teatro era in crisi di pubblico e faticava a reggere il confronto con le piattaforme streaming e gli altri media, dopo la conclusione della fase acuta della pandemia, il rischio di un ulteriore scollamento tra il mondo della rappresentazione dal vivo e il pubblico esiste, non dobbiamo nasconderlo. Si è parlato molto negli ultimi tempi di necessità di innovazione degli strumenti di rappresentazione, dell’opportunità data dalle nuove tecnologie o dell’importanza dello sviluppo di nuove skills per i lavoratori del settore. Tutti elementi da tenere seriamente in considerazione e da sviluppare. Il gruppo di cui faccio parte ed io non abbiamo mai smesso di lavorare, nonostante le difficoltà e non potendo fare tante delle nostre attività tradizionali, abbiamo cercato, come molti altri, di adattare faticosamente e con creatività le nostre azioni ai nuovi presupposti. Spesso, per non dire sempre, abbiamo incontrato entusiasmo e disponibilità da parte delle persone che abitualmente incontravamo in presenza, fossero essi allievi dei nostri corsi o persone che assistono e partecipano alle nostre attività o performance. Quell’entusiasmo e quella partecipazione era dettata dal fatto che si facesse un’attività nonostante il momento, nonostante tutto. Le attività che partono dal basso, dai quartieri, dal territorio, sono ancora in grado di avvicinare le persone al teatro e alle iniziative culturali in genere. Sono ancora in grado di far scomodare le persone dalle loro case per venire ad assistere a quel rito collettivo rappresentato dal teatro e dalla teatralità.


Per concludere, la prospettiva del teatro nella ripresa post Covid meriterebbe un approfondimento serio che prenda in analisi le politiche europee e nazionali, gli investimenti, le linee guida e tanti altri parametri. Ci sarebbe molto da dire e nessuno, e di certo non io, può provare a sentenziare su quale sarà il futuro in tal senso.


Una cosa però vale la pena dirla: piuttosto che domandarci in che modo possa ripartire il teatro dopo la crisi, forse varrebbe la pena domandarsi in che modo possa uscire dalla crisi una società senza teatro e senza teatri.


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