di Giorgia Carducci
4C Liceo delle Scienze Umane - opz. Economico/Sociale
I dati dell’ultimo mese ci dicono che l’inflazione è arrivata a cifre che non si vedevano da anni: +6,8 su base annua a maggio 2022 e +8% a giugno.
Erano 40 anni che si vedevano cifre del genere.
«Sia l'inflazione che la deflazione hanno prodotto gravi danni. Entrambi i processi operano sulla distribuzione della ricchezza fra le varie classi e, sotto questo aspetto, l'inflazione risulta peggiore. Entrambi i processi agiscono anche come accelerazione o rallentamento della produzione di ricchezza, ma in questo caso più dannosa è la deflazione.» afferma l’economista Keynes, ma per comprendere la sua affermazione è necessario prima analizzare singolarmente i fenomeni che fanno riferimento ad una delle variabili economiche più significative: il prezzo.
L’inflazione si definisce come l’aumento generalizzato e prolungato nel tempo dei prezzi; si calcola attraverso il tasso di inflazione, valore indicativo della variazione del potere di acquisto della moneta. Nel calcolo si prende come riferimento l’IPC (indice dei prezzi al consumo), ovvero un indicatore relativo ai prezzi dei beni e dei servizi di consumo, che costituiscono il paniere dei beni, comprendente i generi di uso quotidiano, i beni durevoli e i servizi e l’IPP (indice dei prezzi alla produzione) con cui si indica la variazione dei prezzi per l’imprenditore.
Le cause dell’inflazione sono molteplici: eccesso di liquidità, perché la velocità con cui la moneta in circolazione aumenta non è proporzionale alla produzione di beni e di servizi (scuola monetarista); incremento della domanda rispetto all’offerta (scuola keynesiana); l’innalzamento dei costi di produzione (contenenti sia i salari che i prezzi delle materie prime) e l’aumento dei prezzi di materie prime estere. E’ di tutta evidenza l’importanza di quest’ultimo fattore sull’impennata dei valori citati all’inizio.
Per quanto riguarda gli effetti negativi, che si presentano in situazioni di inflazione galoppante (con tasso compreso tra il 5% e il 20%) o di iperinflazione (quando il tasso supera il 20%), bisogna considerare diverse voci: innanzitutto la moneta perde il suo potere d’acquisto e le sue funzioni primarie di risparmio e di strumento di pagamento, vengono conseguentemente affidate ai beni rifugio (beni il cui valore non varia al trascorrere del tempo, come i beni immobili, le opere d’arte, i gioielli…); si crea uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti perché la competitività di un Paese diminuisce sul mercato internazionale, ricorrendo frequentemente alle importazioni e riducendo le esportazioni; la distribuzione dei redditi poi, così come affermato da Keynes, grava negativamente sui dipendenti e favorisce chi percepisce entrate variabili ; in un rapporto obbligatorio i creditori sono svantaggiati rispetto ai debitori (fatta eccezione per quei creditori che hanno inserito la clausola di indicizzazione del credito nel contratto) e lo Stato deve sostenere costi più elevati per elargire servizi, aumentando la situazione di deficit pubblico. Le conseguenze sulla produzione, invece, seguono un percorso singolare, perché in un primo momento gli imprenditori percepiscono una rendita di inflazione, ovvero un profitto speculativo percepito grazie all’aver comprato le materie prime in un momento in cui i prezzi seguivano il loro normale andamento, per produrre dei beni il cui prezzo finale sarà sottoposto all’inflazione; ma presto questa situazione colpirà anche l’imprenditore e si genererà un’inflazione da costi.
Diversamente da quanto si crede, l’inflazione può essere indice di benessere economico in quanto significa che i lavoratori percepiscono un reddito adeguato che permette di alimentare il consumo e di far guadagnare le imprese che saranno più inclini a investire, produrre e assumere; tuttavia, il tasso deve essere sostenibile e per l’Europa si aggira attorno al 2%.
La deflazione, invece, è il fenomeno opposto e si definisce come un calo generico e protratto nel tempo dei prezzi, che si calcola prendendo come riferimento sempre il paniere dei beni.
Un primo motivo della deflazione potrebbe essere l’aumento della produttività rispetto ai salari, per cui i costi di produzione si riducono, facendo si che l’imprenditore risparmi e, potendo così ridimensionare i prezzi finali dei beni.
Le cause, così come le conseguenze, potrebbero sembrare sempre positive, ma non è affatto così. Questo fenomeno, infatti, tende a verificarsi principalmente di seguito a un calo drastico della domanda, quindi, si bloccano i consumi, le imprese non riescono a vendere, diminuiscono i prezzi finali dei prodotti, assieme all’acquisto di beni o servizi da terzi e cercano di contenere i costi di produzione, comprando materie prime a prezzi bassi e operando negativamente sui salari e sulle assunzioni.
In ciascun caso, la prima conseguenza emergente è l’aumento del potere d’acquisto della moneta, ma non verrà sfruttato dai consumatori che ritarderanno progressivamente i propri acquisti in attesa del prezzo più basso, inizialmente riguardo i beni secondari, per poi estendersi anche a quelli primari; assieme alla minore disponibilità degli imprenditori a investire, a produrre beni di qualità e ad assumere. Inoltre, si troverebbe in difficoltà anche uno Stato fortemente indebitato perché per risollevare la situazione economica i tassi del debito da fronteggiare non muterebbero.
Quindi, analizzando questi effetti, si potrebbe considerare che una situazione deflazionistica sia sintomo di ristagno economico, forte ostacolo per il progresso economico e sociale di un Paese.
Un esempio di deflazione piuttosto recente è datato al 1989 in Giappone, quando lo scoppio della bolla immobiliare non ha permesso al Paese di diventare la seconda economia nazionale mondiale.
Una volta chiariti sia inflazione, che deflazione, bisogna chiedersi se Keynes avesse ragione o meno, e il perché.
Credo che l’economista statunitense, ancora una volta, sia stato un visionario perché ho avuto modo di constatare la veridicità di entrambe le sue tesi nel quotidiano, avendo seguito il loro sviluppo successivamente alla diffusione della pandemia Covid-19 nel 2020 e della recente guerra ucraina scoppiata solo pochi mesi fa. Inizialmente si è parlato della terza deflazione della storia italiana, che si è protratta per molti mesi, toccando principalmente i prezzi degli alimentari scesi dello -0.3% (dati di aprile 2021); mentre lo scorso marzo l’inflazione ha raggiunto il 7,5% a causa della guerra (aumento annuo).
Sembrerebbe che l’economia trovi un suo equilibrio solo nell’eccesso o nel difetto, perché le situazioni di bilanciamento tra i due estremi sembrano non destinate a perdurare. Probabilmente, ciò si lega all’insoddisfazione umana, che lo spinge verso l’uno o l’altro polo, denigrando il mezzo; per questo, a livello sociale considero più negativa la deflazione, mentre se si dovesse considerare la situazione personale dei consumatori allora l’inflazione risulterebbe più gravosa.
La deflazione, un fenomeno che non ho mai avuto modo di approfondire prima della pandemia, mi ha impressionato particolarmente soprattutto per la tendenza dei soggetti a rimandare in continuazione gli acquisti, perché il calo dei prezzi si considera un qualcosa di positivo e obiettivamente potrebbe essere così solo se si considerassero i propri consumi, dimenticandosi di far parte di una società e mettendo a tacere la presentazione di un malessere popolare, manifestato nella produzione; perché ci si ferma a fissare l’etichetta del prezzo, senza chiedersi quali processi vi siano dietro e quale sia il significato di quello che potrebbe sembrare un semplice numero. Inoltre, credo che un altro sbaglio comune consista nel ricercare una perfezione ideale, il prezzo minimale, per avvertire una sensazione di controllo sui propri acquisti; quando in realtà sono proprio i prezzi a comandare inconsciamente le nostre spese.
Una tale situazione mi rimanda a due punti fondamentali del pensiero filosofico del francese Blaise Pascal. Egli affermava che l’uomo tende a riempire la propria vita di distrazioni, di divertimenti, per non pensare ai quesiti più significativi e non avvertire l’angoscia da essi scaturita, in economia, ciò si potrebbe riflettere nel comprare sempre il prodotto al prezzo più infimo e “risparmiare” anche una minima quantità di denaro da utilizzare per qualcosa da cui trarre svago, come ad esempio un viaggio in un luogo lontano dal posto in cui abitiamo per non pensare alle ansie delle bollette, dei mutui, delle spese fisse… Inoltre, Pascal sosteneva che l’uomo non vive mai nel presente, ma in attesa del futuro, senza essere mai felice, ma rincorrendo sempre la felicità; in economia abbiamo lo stesso fenomeno nell’attesa del prezzo più basso, che ci porta a non acquistare un bene secondario anche per interi mesi, facendoci contribuire al ristagno economico.
In conclusione, quindi, l’affermazione di Keynes mi ha fatto riflettere su come l’economia riesca a riproporre i sentimenti umani, che possono essere letti solo da chi è disposto ad andare oltre la superficie di un cartellino.
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