di Giovanna Bandini - docente del Liceo Statale "Maria Montessori"
Fine anni Ottanta, esame di maturità.
Più di trent’anni dopo è come se fosse ieri.
Eravamo una quarantina in fila nel corridoio interminabile del primo piano, due classi, una persona per banco; unico alleato il vocabolario di italiano, il foglio bianco davanti, la penna in mano, poi in bocca morsa fino a schiacciarla. Il presidente della Commissione passava lungo la fila: “Se li avete, consegnate libri, quaderni, foglietti” - i cellulari non esistevano. Il presidente era uno sconosciuto per noi, come il resto della commissione; l’unica interna era la prof di storia e filosofia; per la classe abbinata era la prof di scienze, che quell’anno era venuta a insegnare anche in classe nostra. (Adesso la situazione è rovesciata: la commissione è tutta interna, tranne chi presiede che viene da un’altra scuola.)
Tutti si bisbigliavano commenti, battute per allentare la tensione e previsioni assurde sui titoli che ci avrebbero dettato – perché sì, a fine anni Ottanta, il compito di italiano era un tema di cui si aveva la traccia e nulla più: poi dovevi tirare fuori tu tutta farina del tuo sacco. Io fissavo la nuca davanti a me, era di Luca, me lo ricordo bene, immersa nella luce che piombava a riquadri dai finestroni.
In quel momento, dell’esame di maturità (così si chiamava, si chiamerà sempre così per me) non mi importava niente.
Cinque anni di liceo a studiare come una pazza e il giorno del tema mi ero seduta sapendo di doverlo fare bene per puntare al voto più alto, era lì a un passo che quasi mi aspettava: sessanta. Allora era il massimo, non il minimo come oggi: chi ha visto “Immaturi” ora sa perché il gruppo di quarantenni che si trova a rifare l’esame (l’incubo ricorrente di varie generazioni: dover ripetere l’esame perché, per qualche motivo misterioso, non è più valido) fa salti di gioia a sentire: “Sessanta a tutti”.
Avevo immaginato fino al giorno prima la mia giusta soddisfazione, e la fierezza e la gioia dei miei, di mia madre soprattutto: per lei il mio liceo era il riscatto ai suoi studi classici mancati - l’ansia patologica di mia nonna l’aveva confinata alle magistrali perché dietro casa.
Avevo immaginato vacanze lunghe, lunghissime e chissà dove, come un premio e un miraggio.
Tutto azzerato. In quel momento avevo solo una frase davanti agli occhi, e non era il titolo del tema. Tantissimi auguri ragazzo meraviglioso, che la nostra storia non finisca mai.
La mia “notte prima degli esami”, lui aveva parcheggiato in doppia fila per comprare al volo il gelato e io ero rimasta in macchina. Mentre aspettavo, avevo aperto il cruscotto guidata da un intuito inspiegabile – e una fremente insicurezza di me; una bustina da regalo colorata e aperta aveva chiamato la mia mano: dentro, un accendino di quelli belli e un pacchetto di fiammiferi. Avevo alzato il cartoncino per accenderne uno e giocare come da bambina a vedere se riuscivo a farlo bruciare tutto, e la fiamma mi era andata al cuore.
Il cartoncino era stato usato come biglietto per il regalo: il ragazzo meraviglioso era il mio, la storia no.
Glaciale, al suo ritorno gli avevo mostrato il pacchetto. Avevo chiesto, preteso, ottenuto; e lo avevo lasciato. A diciotto anni si è assolute, non c’è spazio per comprensione e compromessi; a diciotto anni si crede che l’amore sia tutto o niente, si crede nel sempre, e se non è sempre allora mai. Non avevo voluto sentire spiegazioni giustificazioni, niente. Non volevo più sentire la sua voce.
Così il giorno dopo stavo davanti al foglio bianco come una statua, guardavo senza vedere, non m’importava del tema, dell’esame, della scuola; non m’importava più di niente e di nessuno, solo del mio cuore bruciato. Ok, mi alzo e me ne vado.
“Beh, che c’è, ti sei incantata? Proprio tu hai il panico da esame?” Era Mary, la prof di scienze; brava ma non severa, simpatica ma non troppo amica. Passava a vedere come andava anche tra noi che non eravamo con lei. Mi aveva vista. Ho sentito di potermi fidare, gliel’ho detto:
“No, è che ieri sera ho lasciato il mio ragazzo. Stava anche con un’altra.”
“Ah ok, allora hai ragione, pensavo che fossi in crisi per i titoli.”
“Che titoli?”
“Come, che titoli? Li hanno appena letti, ora li dettano: è uscito un tema sulla poesia del Novecento, sembra fatto per te. Se stai pure male per amore è perfetto. Queste ore invece di piangere o dire parolacce, scrivi. La rabbia e il dolore, se li usi bene, possono essere molto utili, sta a te decidere cosa ne vuoi fare.”
L’ho guardata, lei ha fatto di sì con la testa; ho preso la penna. Era vero, il titolo era perfetto. Ho scritto tutto di corsa in trance, ho scritto un tema che alla fine mi sembrava bellissimo, ero soddisfatta. Contenta. Ero a pezzi e li avevo rimessi insieme. Ce l’avevo fatta. La poesia e le parole di una professoressa erano state la mia salvezza. Quando sono uscita mi sono sentita rinascere. Ero arrivata in fondo alla prova: accettare la sfida con me stessa – non importava in quale condizione.
Il premio non era il voto, i festeggiamenti della famiglia, le vacanze. Il premio ero io.
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